Da Piazza Fontana a Carlo Giuliani: i saggi a Fumetti di Francesco "Baro" Barilli
Mentre ci interroghiamo sul futuro della nostra piccola, grande rivista (se tutto va bene, avremo un numero doppio da spedire a breve), vogliamo confrontarci con altre persone attive nel settore del giornalismo a fumetti. Una di queste e' Francesco "Baro Barilli", mediattivista, curatore e autore di saggi a fumetti, ma soprattutto una persona mossa da un intenso impegno civile.
Baro, parlaci di te e dei tuoi lavori di graphic journalism.
Come scrittore e mediattivista nasco con i giorni del G8 genovese del luglio 2001. Poco dopo quei fatti fu un mio caro amico a chiedermi di scrivere per Ecomancina, sito internet di informazione alternativa da lui creato (ne nacquero molti in quel periodo). Per me era un’esigenza più che una possibilità: si trattava di recuperare, dopo un periodo di “ritiro nel privato”, la capacità di indignarmi di fronte alle ingiustizie, tornando a sentire che nessuno può ritenersi escluso dalle responsabilità dell’agire concreto. Sia chiaro: l’indignazione non basta, ma è la prima molla che ti porta a “fare qualcosa”. E quel ritiro nel privato che avevo vissuto (come molti della mia generazione) dopo Genova l’ho sentito come una colpa.
Così è nata anche la mia amicizia con Haidi Giuliani, madre di Carlo, e conseguentemente la volontà di assisterla nella sua idea di un sito internet che raccogliesse al suo interno la storia di suo figlio, di “quelli di Genova”, di quelli venuti prima e, purtroppo, dopo. Quel sito lo coordino tuttora: www.reti-invisibili.net.
Ciò che ne è seguito è conseguenza del percorso nato a Genova. Restando al graphic journalism, per l’editore BeccoGiallo ho curato i redazionali dei volumi Ilaria Alpi, il prezzo della verità, Dossier Genova/G8, Il delitto Pasolini, Peppino Impastato, un giullare contro la mafia. Poi sono arrivate le sceneggiature: Piazza Fontana, disegni di Matteo Fenoglio, e Carlo Giuliani il ribelle di Genova, disegni di Manuel De Carli.
In questa mia duplice esperienza di sceneggiatore sono stato fortunato: con Matteo e Manuel non condivido solo l’idea di fumetto come “impegno civile”, ma anche qualcosa che non riesco a descrivere se non come “visione del mondo e della vita”. Sono due professionisti validissimi dal punto di vista tecnico, ma sono anche attentissimi “al merito” delle vicende, sempre estremamente propositivi. I mesi che ho passato con loro sono stati una bella esperienza (“creativa”, ma anche “di vita”) per il continuo confronto cui abbiamo sottoposto le nostre idee, riuscendo sempre a trovare non solo una sintesi, ma una soluzione che quelle idee le sapesse valorizzare meglio di quanto il singolo ideatore (di volta in volta io o loro, nei rispettivi volumi) avesse proposto.
Come dicevo prima, io non sono uno sceneggiatore puro; è un limite tecnico che mi riconosco: per scrivere un fumetto ho bisogno di disegnatori con cui condividere il processo creativo, forti nello storytelling, capaci di dare forma alle mie idee anche quando sono semplici “suggestioni”. Con Matteo e Manuel è stato così.
Cos'e' che ti ha avvicinato al mondo del fumetto?
C’è stata molta casualità, e anche questa scelta è stata in parte influenzata da mie esperienze sul web.
Lettore di fumetti lo sono da sempre. Alla fine dei ’90 cominciarono ad apparire in internet i primi forum di discussione sui comics; in questo ambito fui avvicinato da Marco Rizzo, che stava lavorando sul suo fumetto su Ilaria Alpi: mi conosceva come coordinatore di reti-invisibili, sapeva che avevo intervistato i genitori di Ilaria e mi chiese di occuparmi dei redazionali. Da qui nacque la mia conoscenza con Guido Ostanel e Federico Zaghis del BeccoGiallo, che negli anni seguenti mi affidarono la cura di altri apparati redazionali. Credo che Guido e Federico abbiano visto nei miei scritti un certo “piglio narrativo”, e nel dicembre 2008 mi chiesero se me la sentivo di cimentarmi in una sceneggiatura vera e propria: quella di Piazza Fontana, per il quarantennale che sarebbe caduto giusto un anno dopo.
Per fartela breve: le collaborazioni sui redazionali avevano stabilito fra me e l’editore un rapporto oltre il professionale, fatto di stima e fiducia reciproche. Ma penso che da parte loro l’idea di affidarmi Piazza Fontana sia stata una “scommessa al buio”, un azzardo che spero di aver ripagato.
Tra le altre cose sei il curatore del sito "Reti Invisibili", che cerca di mantenere la memoria su molti episodi oscuri della nostra Repubblica. Pensi che il fumetto possa essere un valido strumento di memoria, o rischia di rimanere troppo generico per l'impossibilita' di farci stare dentro troppi documenti, dettagli, circostanze?
In Italia il fumetto è considerato ancora un genere artistico di serie B. Spesso l’unico valore aggiunto che gli si riconosce è quello di essere “più appetibile” per i giovani: una cosa che, più che una caratteristica, è una conseguenza di questa sua classificazione come arte minore. Intendiamoci: non è una conseguenza del tutto negativa; per esempio, sono contento se con Piazza Fontana ho avvicinato all’argomento qualche giovane che non sapeva neppure cosa fosse successo il 12 dicembre 1969, ma non era questo lo scopo principale del lavoro.
Non credo che il fumetto abbia dei limiti espressivi. O comunque ne ha così come ogni forma artistica ha le proprie peculiarità, positive e negative. Mi spiego meglio con un esempio che ho già fatto in passato. Uno può scrivere un saggio di 1000 pagine dettagliando il proprio no alla guerra, affrontando l’argomento sul piano sociale, politico, etico, storico. Poi ascolta La Guerra di Piero di De Andrè e capisce che quel “no” lo si può condensare in una canzone di tre minuti…
Con questo, sia chiaro, non sto dicendo che Piazza Fontana o Carlo Giuliani rappresentano per il fumetto ciò che De Andrè rappresenta per la canzone d’autore (non sono così stupido o arrogante), e neppure voglio negare l’utilità di lavori più o diversamente strutturati (ben venga, cioè, il famoso saggio di 1000 pagine contro la guerra!!!). Voglio solo dire che ogni messaggio dipende dal mezzo e va rapportato alle sue potenzialità, che ogni forma espressiva è degna, se utilizzata bene, di essere veicolo per qualsiasi contenuto.
Aggiungo una cosa, in apparenza marginale ma a mio avviso significativa. Tanto per Piazza Fontana quanto per Carlo Giuliani noi autori (intendo: con Fenoglio nel primo caso, con De Carli nel secondo) ci siamo confrontati con storie tragiche, irrisolte processualmente, con una lunga coda di veleni… E, soprattutto, abbiamo deciso di farlo parlandone direttamente coi familiari delle rispettive vittime. Ci sembrava giusto: certi argomenti non li si può prendere “a cuor leggero”, non si può sottovalutare che si sta scrivendo di qualcosa che “fa ancora male”, innanzitutto ai diretti interessati. Ebbene, posso dirti che sia i familiari delle vittime di Piazza Fontana, sia i genitori e la sorella di Carlo sono stati ben disposti da subito verso il nostro lavoro. Nessuno ha trovato nulla da eccepire sulla scelta del fumetto, nessuno ha dimostrato pregiudizi verso questa forma espressiva. Non ci siamo, insomma, dovuti scontrare con commenti tipo “sì, ma il fumetto è roba da ragazzini”. In entrambi i casi si trattava di persone non giovanissime, che non avevano grandi esperienze col fumetto neppure come lettori, ma non abbiamo trovato un atteggiamento di chiusura, e i loro pareri dopo l’uscita dei libri sono stati assolutamente positivi.
Puoi darci delle anticipazioni sui tuoi progetti futuri?
Sicuramente Piazza della Loggia, dove tornerò a fare coppia con Matteo Fenoglio, ancora per BeccoGiallo. Non è un mistero, ne abbiamo parlato l’anno scorso con un articolo-anticipazione su L’Unità. Peraltro mi fa piacere parlarne in quest’intervista dove trattiamo di graphic journalism, perché i miei due lavori precedenti si inseriscono solo in parte nella categoria (in entrambi è presente un approccio molto lirico-evocativo, non prettamente giornalistico), mentre per la strage di Brescia del 28 maggio 1974 io e Matteo stiamo cercando di fare qualcosa che sia definibile più come un reportage a fumetti, un affresco più ampio del “quinquennio nero” che si apre con la strage di Piazza Fontana e si chiude a Brescia.
Vorrei poi realizzare qualche progetto personale finalmente di pura fantasia (ossia distaccato dalle “solite” – per me – trame collegate a fatti realmente accaduti), ma che abbia comunque contenuti di denuncia sociale. Insomma: tante cose nel cassetto. Spero, in alcune di queste, di tornare ad avere anche Manuel come compagno di viaggio…
Pensi che una rivista di giornalismo a fumetti sarebbe un buon investimento per un "editore puro" (specie rarissima nel nostro paese)?
Questa è una domanda “rognosa”. Nel senso che una risposta completa pretenderebbe analisi anche “collaterali”. Sulle condizioni di mercato dell’editoria (in generale e, nello specifico, nell’informazione e nel fumetto); sulle nuove piattaforme di fruizione, in confronto (competizione?) con quella tradizionale cartacea… Insomma, tante cose che chiederebbero troppo spazio (e, per dirla tutta, non so nemmeno se sarei in grado di affrontarle compiutamente).
Però posso risponderti affermativamente: credo che una rivista del genere sarebbe un esperimento riuscito. In parte lo dico proprio per le mie esperienze coi familiari di Piazza Fontana e Carlo Giuliani. Non solo, come t’accennavo, non hanno avuto pregiudizi verso il fumetto, ma ne hanno capito le potenzialità. Proprio Giuliano, padre di Carlo, in una recente intervista ha detto “La mia personale cultura in materia di fumetto si fermava a Tex Willer e ad Asterix e Obelix, che a Carlo, tra l’altro, piaceva tantissimo. Poi mi sono ricreduto: il fumetto, se lo si sa fare, ha una incredibile carica comunicativa”. E queste sono mie esperienze dirette, ma potrei aggiungere che pure i genitori di Ilaria Alpi o i familiari delle vittime della Thyssen Krupp (altre persone che hanno visto la propria tragedia rappresentata in una graphic novel) hanno espresso giudizi positivi sui fumetti dedicati ai loro cari. Tutto questo per dire che il fumetto non veicola solo emozioni, ma vere e proprie “narrazioni strutturate”, senza temere il confronto con altre forme artistiche.
Ma c’è una cosa persino più importante. Girando l’Italia mi sono accorto che l’attenzione su questi argomenti c’è, anche se sottotraccia. Non solo: è ormai presente, quasi “debordante”, l’insofferenza verso l’informazione tradizionale, sempre più sciatta, omologata, servile… Abbiamo telegiornali che non hanno dedicato un minuto al recente processo sulla strage di Brescia (salvo poi tentare un ridicolo rimedio dando notizia della sentenza) e dedicano lunghi servizi su casi di “nera”, quando non sconfinano nel semplice gossip. E uguale approccio, con poche eccezioni, è adottato da trasmissioni che si autodefiniscono (non so come…) “di approfondimento”…
Insomma, un tempo poteva esserci rabbia al pensiero che Porta a Porta non trovi tempo per ospitare, accanto al plastico di Cogne, una puntata decente sulla strategia della tensione, tanto per fare un esempio. Oggi c’è la consapevolezza che esiste un pubblico, diverso da quello di Porta a Porta, interessato a parlare di certe tematiche; tanto storiche (per restare all’esempio di prima) quanto attuali: lavoro, diritti, migranti, beni pubblici eccetera.
Forse è davvero il momento di uscire da schemi preconfezionati, anche nell’informazione. La recente campagna referendaria ha dimostrato, fra le altre cose, che anche in un persistente black out informativo dei media tradizionali si può vincere, tentando strategie comunicative che ormai solo parzialmente possono definirsi “innovative” o “di nicchia”. Dunque perché non continuare a provarci, anche con una rivista di giornalismo a fumetti?
E allora continuiamo a provarci... grazie e in bocca al lupo!
Se vuoi sostenere questo sito, Richiedi uno dei nostri libri e combatti con noi il degrado culturale.
Commenti
Inserisci il tuo commento